LeBron James il Prescelto

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James giocava a basket e, fin da ragazzino, palleggiando sul cemento duro, tra le erbacce, aveva un sogno: il titolo Nba.
In Ohio, c’erano i Cleveland Cavaliers. Non certo un dream team, ma per lui andavano benissimo: l’avevano scelto al draft 2003, e con loro iniziò a giocare come guardia.
Da guardia divenne ala piccola, poi anche ala grande. Dovunque lo posizionassi, una volta che gli passavi la palla, l’avevi messa in cassaforte. James era un “1-through-5”, un giocatore capace di interpretare tutti e cinque i ruoli di una squadra. Ma nonostante lui potesse essere un’intera squadra, l’intera squadra non era lui: i Cavs non vincevano. Non ancora.
Riuscì a trascinarli alle Finals nella stagione 2006-07, giocando come un mago nella finale di Eastern Conference contro i Detroit Pistons: nella fondamentale gara 5, segnò gli ultimi venticinque punti della sua squadra. Ma alle Finals vinsero i San Antonio Spurs. 4-0.
James non si lamentò della sconfitta, non era un pessimista.
Anzi, tutto il contrario. Ma c’era qualcosa che gli mancava. E non era la vittoria.
Gli mancava la capacità di rendere concreta la barca dei sogni in cui era cresciuto.
Voleva imparare a vincere.
Così, dopo tre stagioni concluse ai playoff, nel 2010, lascio i Cavs per i Miami Heat.
La barca dei “Cavalieri” sbandò pericolosamente, mentre James, a Miami, imparava a navigare nelle acque più alte della Nba: diventò letale nella media punti, e un difensore quasi imbattibile.
Giocò le Finals per quattro anni consecutivi. Due le vinse e due le perse (con Dallas e San Antonio).
Ma, di nuovo, non era questione di chi vinceva e di chi perdeva. Era questione di averlo imparato.
A quel punto, quando si sentì pronto, tornò a Cleveland. Scelse il numero 23.
Trascinò subito i Cavs alle Finals, insieme a Kyrie Irving. Contro, trovarono i Golden State Warrios.
I Cavs erano avanti 2-1 nella serie, poi Kyrie si infortunò e la squadra, indebolita, perse 4-2.
Ma Lebron James era ancora più determinato.
“Di nuovo” disse.
E, di nuovo, furono Finals.
E, di nuovo, contro Golden State.
I sogni sono tutti cerchi che si chiudono, sono strade che tornano, fino a quando non sistemi la rotta.
Dall’altra parte, per Golden State giocava Stephen Curry. La serie fu uno spettacolo, aperta ed equilibrata e si trascinò fino a gara 7.
LeBron giocava ai limiti delle sue possibilità. Che erano i limiti dell’intera disciplina.
A due minuti dalla fine dell’ultimo incontro, eseguì una stoppata (su Andre Iguodale) che sarebbe passata alla storia come “The Block”.
Vinsero i Cavs.
E il loro comandante, finalmente, a trentadue anni suonati, si poté sentire come un bambino di otto, là, sulla strada. E scoppiò a piangere.

[Estratto dal libro: Goals – 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili]

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